Pagina aggiornata il 6 marzo 2009
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FOTO G.LUISE
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brani da: G.LUISE - O R M E
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Il battente di ferro era una mano che stringeva una palla. Si bussò. Si sentirono dei passi e una suorina, piccola e grinzosa, apparve nel vano, con la sottana nera, un grembiule azzurro e la testa fasciata di lino ricoperta da un rigido velo nero orlato di bianco, che le scendeva su una mantellina nera filettata di rosso.
“ Io da ‘e cape ‘e pezza nun ce vogl’i’ “ cominciai a strillare. La suorina chiamò un’altra suora e di peso mi portarono in un’aula spaziosa, dove penavano rassegnati altri bambini. Alcuni mi guardavano stupiti, altri con commiserazione. Qualcuno prese a sghignazzare, ma intervenne prontamente una robusta suora con la bacchetta e a tutti passò la voglia di divertirsi alle mie disgrazie.
Le suore erano abituate a quelle scene e misero in atto tutti i loro espedienti. Avevano un mobile a vetri con tanti giocattoli messi in bella mostra. Ne presero parecchi e me li sistemarono davanti.
Anch’io mi lasciai fregare! La notte sognai un mare di giocattoli..
Il giorno dopo ritornai in via San Vincenzo senza frignare, ma neanche con entusiasmo. Al portone mi prese in consegna la suorina grinzosa, che mi avviò alla solita aula.
Sul mio banchetto i giocattoli non c’erano più.
Li chiesi alla suora-maestra.
“ Guaglio’ - mi rispose - che te crire ch’è semp’ festa? “
L’educazione alla vita, purtroppo, era iniziata.
Siamo nel 1932.
Avevo terminato la Prima elementare, come si dice, senza infamia e senza lode.
In Seconda cambiai edificio e insegnante. La mia classe fu relegata nella Succursale, costituita da appartamenti presi in affitto dal Comune in un fabbricato poco lontano dall'Edificio centrale, dove risiedeva il Direttore.
Fu come se ci avessero sbattuti in serie B. Mentre sapevamo che alla Centrale erano accolti gli alunni provenienti dalle famiglie cospicue del paese. Gli stessi insegnanti ne erano mortificati. Tra noi correva voce che essi fossero i più scadenti, mentre i migliori insegnavano vicini al cuore del Direttore. Questi faceva tremare tutti: maestri, bidelli e alunni. Pretendeva la pulizia e l'ordine al massimo grado. Sceglieva tra gli alunni della Centrale gli attori degli spettacolini e i Balilla più efficienti da mandare in parata nelle feste nazionali, quando lui, con la divisa grigioazzurra impeccabile, gli stivaloni a specchio, la camicia nera, il pugnaletto con la testa di leone ruggente e il cappello a "cacaturo" con la frangia che oscillava ad ogni movimento della testa, salutava impettito col braccio teso il Federale, che passava in rassegna le fulgide speranze dell'ONB (Opera Nazionale Balilla).
C'era uno di quei Balilla, che mi stava particolarmente sullo stomaco. Con i calzoncini grigioverde corti, la camicia nera, il fazzolettone azzurro e il fez col fiocco, era sempre in prima fila, testa alta e naso appuntito, col tamburo sul ventre. Insieme con altri fanatici, egli ritmava la marcia del manipolo. Già allora era un cittadino di serie A. Nel futuro, dovunque ci sarebbe stato da emergere, sarebbe spuntato lui: al Liceo, all'Università, nel GUF (Gruppo Universitari Fascisti). Dopo la caduta del Fascismo e la guerra, diventato avvocato e professore universitario, sulla scia della stella del maggiorente locale DC avrebbe percorso tutti i gradi della politica locale e nazionale, ministro, membro e poi presidente di uno dei massimi organi dello Stato.
Il mio insegnante dalla terza alla quinta fu il maestro D.C.
Signore, donagli la tua pace. E perdonagli la tirata d'orecchi a due mani con sospensione a mezz'aria che m'inferse un giorno mentre ci disponevamo a uscire dall'aula.
Perdonagli la mania della "spalmata" che ci faceva tanto male, mentre lui gioiva e per il piacere cacciava la lingua e se la mordeva.
Perdonagli perché era un maestro mediocre, un po' "cavaiolo", ma faceva ciò che poteva.
Giunto alla fine della quinta classe, mio padre si rivolse a lui per decidere del mio avvenire.
" Prufesso' - gli disse - io tengo cinque figli. E qua non si guadagna niente. Noi lo dobbiamo mettere a una scuola che non costa".
Caro maestro (o professore, come si diceva allora) se oggi io ti giudico un mediocre è anche perché non sapesti essere obbiettivo con mio padre.
Non sapevi tu che i libri, in qualunque tipo di scuola, costavano comunque e che per le famiglie numerose c'era l'esenzione dalle tasse scolastiche ?
Poiché avevo qualcosa di buono, avresti potuto dire:
"Mastu Miche', il ragazzo può andare al ginnasio. Un po' di preparazione per l'esame di ammissione gliela faccio io".
Invece no. Senza capire un tubo di me, assecondasti l'ignoranza di mio padre e mi facesti sbattere alla Scuola di Avviamento Professionale. La scuola dei poveri, cioè dei poveri di spirito, per coloro che non aspirano alla ricchezza della cultura. Per non parlare dell'elevazione sociale.
Caro don D. per quali vie tortuose mi menasti ! Ma forse, chissà, tu non ne avesti colpa. Tu fosti uno strumento, senza saperlo. Ed ora, te lo dico in un orecchio: non me ne dispiace.
Sul pianerottolo di casa mia s'aprivano due porte. Anzi una porta e un antiporta.
La porta era dell'appartamento di Stella. L'antiporta apparteneva alla casa dei De Luise.
La particella "De" è indice di nobiltà. Infatti il capo di casa di quella famiglia era un nobiluomo. Ma non era conte, né marchese. Era "Rucchetiello".
Alto, grosso, calvo e severo, aveva due maestosi mustacchi sale e pepe, come il re Vittorio Emanuele III, che risaltavano sulle guance, rosse come due pomodori maturi a causa del suo sviscerato amore per il buon vino rosso.
Aveva tre figli: Vincenzo, Catello e Anna, alias Vicienzo, Catiello e Nannina.
Rucchetiello faceva il mestiere di "caurararo" o "rammaro". Cioè il calderaio o ramaio.
I due figli maschi erano stati indirizzati allo stesso lavoro, perché l'arte del padre è mezzo imparata, come si diceva allora.
Tale mestiere rendeva bene perché tutti usavano pentole, tegami, padelle e tutto il resto lavorato in rame. Perfino le brocche e i bicchieri erano di rame. L'acqua potabile del pozzo giù nel cortile, attinta con la brocca era freschissima bevuta dalla brocca stessa.
Però, per cucinare, il rame aveva un difetto: i cibi lo attaccavano chimicamente e diventavano velenosi. Il rimedio consisteva nella stagnatura. Il cibo non attaccava lo stagno e quando i tegami erano stagnati si poteva mangiare tranquilli. Altrimenti erano...dolori di pancia.
Così Rucchetiello e i figli potevano stagnare a tutta forza e guadagnare belle lire. Mastu Rucchetiello si era fatto un nome perché era il più bravo "caurararo" dei dintorni.
Al mattino presto, lui e i figli uscivano e prendevano ognuno una direzione. Con un manico di padella infilato nell'occhiello di una pentola e appoggiato su una spalla, battevano ciascuno la propria zona, offrendo il proprio lavoro con un richiamo: " 'o caurararoooo".
Secondo i giorni, quando si era esaurita la capacità di portare sulle spalle i pezzi da stagnare, si ritornava a casa. Il giorno dopo non si usciva; si lavorava in cortile.
Il cortile era solo in parte ricoperto di grosse lastre di selce vesuviana. Il resto era in terra battuta, sulla quale si poteva svolgere qualunque tipo di lavoro, senza correre minimamente il rischio di arrecare fastidio a qualcuno. I ragazzini facevano circolo e con la curiosità potevano apprendere i rudimenti di un mestiere.
Mastu Rocco piantava nella terra un grosso paletto di ferro, che nella parte superiore terminava in modo che ci si potesse battere: era l'incudine del calderaio. Su di essa egli cominciava a martellare le pentole ammaccate. Oppure attaccava le maniglie schiodate con chiodi ricavati da pezzetti di lamiera di rame arrotolati. O rappezzava i tegami bucati ugualmente con ritagli di lamiera inchiodati e ribaditi. E tutto ciò faceva con martellate precise e regolari come rintocchi, che rimbombavano per ore intere come lamenti di anime in pena.
A mano a mano che termnava un pezzo, lo passava ai figli. Questi, dopo aver scavato una buca e colmata di carbone coke, ficcavano nel mucchio il cannello di una ventola a mano e davano fuoco, affidando a un ragazzino, scelto per premio tra tutti quelli che facevano ressa intorno, il compito di girare allegramente, ma nel senso giusto, la manovella.
Vicienzo era addetto alla stagnatura. Versava nella padella infocata l'acido muriatico, che sfrigolava e mandava sbuffi mozzafiato di vapore. Poi con un grosso batuffolo di stoppa puliva la superficie da stagnare. Vi gettava un pezzo di stagno, che lentamente fondeva, e con la stoppa lo distribuiva bellamente fino a quando la padella luccicava a specchio. Poi la passava al fratello.
Catiello era incaricato della lucidatura. Sabbia, terra, limone, sale e tanta, tanta dura e ostinata fatica. Il mestiere era penosissimo e distruggeva l'organismo a poco a poco. Bisognava stare sempre seduti sulle gambe. L'acido anneriva la pelle, corrodeva le mani, distruggeva i polmoni, logorava gli occhi e i denti.
Mia madre era presa dalle sue numerose faccende; Mio padre dal suo lavoro.
A me potevano badare poco e io andavo con chi capitava. Ero ingenuo e indifeso. Ma ero sensibilissimo. Tutto ciò che ascoltavo, tutto ciò che vedevo mi si fissava nell'immaginazione e nei sensi.
La bottega di mio padre era un porto di mare. Vi bazzicava gente di ogni risma: uomini adulti e ragazzi corrotti. E di tutti ero costretto a subire l'influenza, nel bene e nel male.
A quei tempi ogni zona o rione aveva la sua "banda". La Fontana grande, la Caperrina, il Cognulo, la 'Mbricciatella erano le bande più temibili. Erano i Ragazzi della via Paal in edizione peggiore !
Le componevano non solamente ragazzini di sette od otto anni, ma anche giovani in età di leva. Erano avvezzi a scorrerie di ogni genere e quando si scatenavano nemmeno la Pubblica Sicurezza ci poteva. Ogni banda aveva il suo capo riconosciuto e indiscutibile.
Di tanto in tanto scoppiava una guerra tra bande. La banda della Fontana si muoveva per attaccare la banda della 'Mbricciatella all'altro capo del paese.
I negozianti spiavano le mosse, pronti a chiudere i pesanti battenti. Perché si cominciava con la "surriata", cioè la sassaiola, poi si passava alle mani, alle "scummate 'e sangue", alle "ciaccate" alla testa, che costituivano i trofei di guerra.
Anche il mio rione, 'o Ponte d'a Chiattona, aveva la sua banda. Il capo indiscusso era Vittorio. Un marcantonio che per la sua forza avevano soprannominato "Lalotta".
Di questa banda faceva parte anche un tale Roberto, al quale ricorrevo quando qualcuno mi voleva fare un torto. Io, pivellino timido, mi mantenevo ai margini della banda. Le "surriate" le guardavo da lontano, ma durante i bivacchi ero sempre tra loro, osservando e imparando, perché anche quella era una fetta di vita.
Quando si trattava di azioni poco pericolose, partecipavo anch'io. Così quando si decideva di andare a "sfottere" Nanninella 'e Nora, oppure Fonzo 'o Pazzo o Polidoro o le coppie che tubavano negli angolini scuri.
Nanninella 'e Nora, una povera donna coperta di stracci, che chiedeva l'elemosina, si limitava a mormorare maledizioni, fulminandoci con i suoi occhi carichi di odio.
Fonzo 'o Pazzo, col pizzetto al mento, andava sempre vestito con un frac bisunto e un cappello "tosto" all'inglese. Impugnava un bastoncino di bambù e con la mano sinistra a pugno dietro la schiena passeggiava impettito. A un tratto, senza nessuna ragione, esclamava :" Vaco 'e pressa" e si lanciava a camminare a passi concitati. Poi si fermava e ricominciava la scena tra il sollazzo dei passanti e dei ragazzini, che lo sfottevano in coro :" Sciò-i,Sciò-i ". Tradotto: Va' via, va' via. Ma così non significa nulla.
Polidoro era la macchietta più patetica: di buona famiglia, svitato, ma non fino al punto da essere completamente scemo, aveva due fissazioni: le biciclette e le donne.
Per la prima, frequentava la bottega di mio padre, santuario delle due ruote. Per la seconda imboccava spesso una malfamata stradetta della vecchia Stabia, dove si vendeva l'amore sotto il controllo della Pubblica Sicurezza. Comunque non risparmiava sguardi vogliosi e commenti pepati per ogni donna che passava, eccitando l'ilarità cretina di quanti per divertimento l'attorniavano, adulti e ragazzini, me compreso. Possedeva una bicicletta da corsa oggetto delle sue infinite attenzioni. Specialmente nei pomeriggi desolati d'inverno, quando nemmeno i cani si avventuravano per il lungomare, si organizzavano gare di velocità. Allora si combinava tutto per fare arrivare primo Polidoro. Applausi e fischi costituivano il premio. Ma egli rideva beato con i denti cavallini, come un fanciullo nei prati celesti.
Uno degli aspetti insopprimibili della mia indole è l'insofferenza. Non sopporto che mi si impongano le situazioni. Aborro le scarpe e i colli stretti; rifuggo dalla folla; odio le assemblee parolaie; mi prostrano i capiufficio; mi toccano lo stomaco i superiori militari.
In genere tutte le autorità, civili o religiose, mi irritano. Sotto questo aspetto posso considerarmi un anarchico, però sono per l'ordine coscientemente scelto. Insomma sono per la democrazia aristotelica, perciò sono un idealista deluso e sofferente: ottimista per il desiderio di perfezione, che spero di veder realizzato nell'altro mondo; pessimista per quanto riguarda la natura umana.
Dopo questa premessa è intuibili quali possano essere stati i miei rapporti col Regime. Fortuna che esso sia caduto per tempo. Altrimenti non so come sarebbe andata a finire.
Durante la scuola, si pretendeva che al sabato o alla domenica partecipassimo alla "Adunata".
Il lunedì l'insegnante della prima ora doveva controllare. Dipendeva. Se portava la camicia nera solo per quieto vivere, se ne fregava. Così noi ci regolavamo.
Tra i miei compagni c'era un gruppetto che si era iscritto alle squadre di marinaretti di Poldo S., un simpatico ed estroverso ragazzo dal grado di "Cadetto", che aveva partecipato a parecchi "campi Dux". Gli piacevano le divise inappuntabili, le parate, gli esercizi ginnici.
Quando ci spronava era convincente. Forse anche lui era pronto a spaccarsi la testa per il Duce, ma credo che al momento opportuno non l'avrebbe fatto, perché proprio scemo non era. Diciamo che era un tipo carismatico e io mi divertivo a giocare col moschetto e feci persino il corso da caposquadra.
Insomma Poldo era un fenomeno. Ci portava dappertutto; e si faceva sentire e reclamava i nostri diritti con fermezza. Perché lui aveva la forza dell'Idea Fascista!
Quale non fu la mia delusione, quando lo incontrai qualche anno dopo la guerra. Con un modesto impermeabile e un "piripisso" in testa.! Pedalava verso una scuoletta di campagna per una supplenza.
Mentre io ritenevo di aver fatto passi da gigante, egli mi appariva poco più che un tapino: senza divisa attillata, senza autorità, senza il Duce era nulla.
Il professor Del Zio, tutto sbagliato, a cominciare dal cognome, apparteneva alla stessa razza dello schizofrenico professor D'Achille.
Perdonatemi. Ma se lo lascio passare alla chetichella voi vi perdete il piacere della macchietta e io la soddisfazione di scaricarmelo dal subcosciente.
Di statura qualche centimetro più della normale, magro come l'angosxia della miseria, il nostro uomo camminava a balzelloni, col centro di gravità che minacciava insistentemente di slittare fuori della base.
I capelli sale e pepe, rigidi come fili di ferro, tendevano a cadergli ai lati della testa, incorniciandogli comicamente il volto dagli occhi miopi, sovraccarichi di lenti spesse un centimetro.
La sua bocca tendeva continuamente a una smorfia, che sarebbe inesatto chiamare sorriso, perché era intrisa di sarcasmo sfottente e osceno per la bava che stava sempre lì lì per colare, se lui non l'avesse risucchiata per tempo con un sibilo rumoroso e stomachevole.
Quando era arrabbiato metteva paura, perché ci fissava con le pupille dilatate, che assumevano un aspetto folle, attraverso gl'innumerevoli cerchi concentrici degli occhiali.
Egli abitava in un vicolo dei quartieri napoletani su a via Roma. Riceveva gli alunni, che si rivolgevano a lui per le preparazioni agli esami, in una stanza buia e disordinata.
Tutto il tempo lo perdeva a dettare appunti: a casa poi bisognava impararli per filo e per segno.
Un giorno successe il finimondo. Un ragazzo sbagliò qualcosa. Del Zio lo riprese con quella sua sfottente risatina da manicomio.
Il ragazzo sbagliò ancora e Del Zio, sempre più irritante, cominciò ad agitarsi sulla sedia.
Il povero ragazzo finì con l' impappinarsi del tutto.
Sprofondati terra!
Fuori di sé, alzatosi di scatto, il folle afferrò il ragazzo con le sue frenetiche braccia scheletriche e scaricò una grandinata di pugni sulla schiena del disgraziato che, come Cesare alle Idi di marzo, si coprì la testa con le mani e si fece oggetto di vituperi e colpi fino a quando l'altro, gli occhi roteanti e la bava alla bocca, non si sentì esausto.
Noialtri, esterrefatti, rimanemmo di ghiaccio, peggio che a un film dell'orrore, che in fin dei conti è sempre una finzione.
In cuor mio mi rassicurai, pensando che una cosa del genere a me non poteva accadere. Ma...
A causa dei bombardamenti, i treni non viaggiarono per qualche giorno e io, che provenivo da Castellammare di Stabia, non potei andare a lezione.
Del Zio me ne chiese conto.
" Sa com'è - risposi io bellamente con candida ingenuità - i bombardamenti, i treni che non camminano. Come facevo a venire? "
L'uomo mi guardò stranamente, visibilmente irritato forse dalle mie spiegazioni o forse dal tono confidenziale con cui le avevo date.
Chissà, ma chissà cosa passa per la testa della gente! Chissà quale meccanismo scattò nei precordi di quel poveraccio!
Fatto sta che fu agguantato dallo scirocco.
Si ripeté la scena di alcuni giorni prima con l'altro ragazzo.
Fece l'atto di afferrarmi e cominciò a scatenarsi.
Ma io non ho la toga di Cesare e non mi accomodo alle furie dei tangheri. Ho moltissima stima invece per Catone, che consiglia di evitare ogni sgradevole... occasione.
Riuscii a imboccare la porta e: "Vienimi appresso. Mi hai visto adesso? Non mi vedrai più", ripetevo a me stesso correndo, tutto felice di essermi liberato da quell'incubo.
Poco dopo mi raggiunse il mio amico con i miei libri. Allibito, si rammaricava dell'accaduto e non riusciva a comprendere la mia gioia, perché egli pensava ai prossimi esami, dove ci sarebbe stato Del Zio come esaminatore. Ma io mi trovai un altro insegnante, preparato, ma soprattutto sereno.
Alla prova d'Inglese, Del Zio non si presentò. Al suo posto ci esaminò benevolmente una giovane e graziosa professoressa.
I miei compagni che erano rimasti con lui fino all'ultimo, si sentirono traditi. In me invece si rinsaldò la convinzione che da qualche parte Qualcuno mi voleva bene.
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